di Claudia Leporatti – Intervista dalla stazione di Budapest Keleti ad Alessandro G., l’italiano residente a Budapest che sabato in tarda mattinata si è incamminato insieme ai migranti diretti verso l’Austria, percorrendo in circa 8 otto ore i 25 km verso la stazione di Biatorbagy.
Ci incontriamo a Keleti, “dove sennò” commenta Alessandro, e in effetti. “Keleti – racconta – è diventata un villaggio, con la piazza principale, la strada, il mercato, il ristorante, il campo da pallone…è incredibile come sia nato questo piccolo paese davanti alla stazione, con la gente che si ferma ad osservare dal passaggio sopraelevato.” Oggi ci sono molte meno persone qui, l’atmosfera è cambiata, ma permane una sensazione, quella che questo sia il posto dove stare, in questi giorni. Una considerazione che va oltre l’interesse giornalistico e che deve essere passata per la testa anche ad Alessandro.
“Credo che Keleti stia facendo bene agli ungheresi. Sta insegnando qualcosa. Qualcosa di cui c’era bisogno”. Migration Aid continua a distribuire cibo, acqua, materassini, coperte e prodotti per l’igiene personale, raccogliendo allo stesso tempo le donazioni dei tanti, veramente tanti, che fanno del loro meglio per contribuire. Arriva una signora di una certa età con due cuscini in grandi buste, mi spiega che viene dall’Inghilterra, è qui per pochi giorni e li sta passando a comprare cose e portarle qui in stazione, al punto di raccolta. E’ cordiale, facciamo due chiacchiere: “Ero passata solo a dare un’occhiata, – mi spiega – ma è impossibile non sentire il bisogno di aiutare, dopo aver visto queste persone.”. Sembra contenta, non le importa di aver rinunciato alla visita della città. Arriva Alessandro, con la faccia di uno che è appena entrato in casa sua, controlla che tutto sia a posto, nota i cambiamenti rispetto a ieri, calcola quante persone ci sono.
Alessandro, cosa ti ha spinto a metterti in cammino, sabato scorso?
Passo spesso da Keleti in questi giorni, per vedere come va. Sabato era un giorno strano, già dalla notte quando con un colpo di scena il governo ha inviato i bus per l’Austria, dopo un lungo stallo. Sono arrivato presto, alle 6.30-7 e il piazzale era quasi vuoto. Sono andato a riposare e alle 11.30 quando sono tornato ho visto persone incamminarsi, una scena che il giorno prima avevo seguito dal televisore di una bettola qui vicino. Ho capito dove andavano e li ho seguiti.
Perché?
Vivo qui da molti anni e quando posso mi piace raccontare, testimoniare i fatti, la vita qui ma anche gli avvenimenti.
Hai parlato con tante persone?
Ho fatto amicizia con alcuni di loro, quelli con un buon inglese, ma non ho violato il privato di quanti non hanno voglia di parlare. Per molti questo viaggio è una tragedia… ma a volte basta essere pazienti e sono loro ad aver voglia di sapere chi sei e perché ti sei unito a loro.
E che cosa hai risposto a chi te l’ha chiesto?
Scherzando ho ripetuto che mi piace camminare, fare sport all’aria aperta.
Cosa pensi della posizione del governo ungherese nei confronti dei migranti?
Questa mattina Orbán ha parlato a lungo e senza giri di parole. Secondo me il primo ministro ungherese le cose le vede in modo molto chiaro. Il sistema di Dublino è al collasso. Ho provato a chiedere anche ai migranti cosa ne pensano e in generale rispondono che non andrebbero in un Paese imposto dal sistema delle quote.
Orbán si è mantenuto coerente, ha detto che nelle prossime due settimane dobbiamo chiederci se vogliamo o meno scegliere accanto a chi vivere e ricordato che l’Ungheria non ha confini naturali come l’Italia, la Francia, la Germania…quindi è suo diritto alzare un epitmeny, una costruzione, parola che ho trovato abbastanza vaga e inquietante.
Sei d’accordo con questa linea?
No. Per provocazione gli suggerirei di mettere una cupola sull’Ungheria per impedire agli ungheresi di andare a lavorare in Inghilterra, allora. Sono problemi complicati, questo sì, ma un muro non li risolve. Anzi: i muri sono fatti per essere scavalcati, sono quasi un invito a venire più numerosi. I profughi non smetteranno di arrivare. Adesso c’è da vedere, credo, se a livello europeo abbiamo la forza di trovare una soluzione condivisa.
Come ti è sembrato l’atteggiamento dei cittadini ungheresi nei confronti dei migranti?
La società è divisa tra quanti, fomentati dalle parole del governo, sono presi dal panico e da una paura e una diffidenza del tutto irrazionali e coloro che invece aiutano e sostengono. Lungo la strada verso Biatorbagy sembra di stare a una maratona: c’era chi ci aspettava con pizze giganti già affettate o con buste di cibo e bottiglie acqua, ma anche persone ad incitarci.
Le tue impressioni dopo aver passato tante ore con i migranti?
Sono persone in viaggio, niente di più. Si sono avviate senza immaginare che superare i confini sarebbe stato tanto difficile. Tra loro ci sono benestanti e poveri, sono siriani, ma anche afghani, iracheni, eccetera.
Mentre parliamo Alessandro vede che un ragazzo siriano, ingegnere agricolo, ha accettato la sua amicizia su Facebook e sta commentando il suo post su sabato: adesso è a Monaco. Ride, guardiamo insieme le foto di un ragazzo normalissimo, che in Siria aveva un lavoro, amici, una vita comune.
Come riescono a sopportare i disagi di un viaggio che pare infinito?
Sono organizzati, sanno camminare a lungo, anche i bambini, che non si lamentano. Tutti hanno la loro coperta con sè, è fondamentale. Attraversare stati come la Grecia e la Macedonia è più facile perché lì vengono aiutati e non li fermano, in altri casi, come qui in Ungheria, è più dura, per fortuna ci sono i volontari. Ho visto persone scrivere sui giornali e sui social che i migranti sono degli ingrati perché non accettano cibo e aiuti: molte volte si tratta di persone che hanno soldi e viveri, non fanno l’elemosina, quello che vogliono è solo andarsene!
Come sempre, la chiave è la conoscenza. “Se li vedi e passi del tempo con loro, non puoi odiarli e considerarli dei nemici”.
Intervista uscita su EastJournal.net
Leggi qui “In cammino verso Occidente” il reportage di Alessandro sul suo blog “Live in Budapest”
Claudia Leporatti