Intervista a Gaia Rayneri dalla Fiera del Libro di Budapest

A Budapest come ospite al Festival Internazionale dei Libri del 2011, Gaia Rayneri, scrittrice torinese, prende parte ad un’edizione senza precedenti della principale fiera ungherese interamente dedicata ai libri. Come molti altri eventi di questo semestre, infatti, la fiera del libro ha tratto giovamento dalla coincidenza con la presidenza di turno dell’Unione europea. Budapest ha pensato non solo ad invitare scrittori da tutti i paesi membri UE, ma anche ad organizzare eventi mirati a favorire la loro partecipazione attiva e la circolazione di libri stranieri, veicolata dalla loro presenza a questo apprezzato festival.

Gaia è stata scelta per la categoria degli scrittori che hanno da poco pubblicato il loro primo romanzo. “Pulce non c’è”, pubblicato da Einaudi nel 2009, è una storia vera e drammatica, raccontata con ironia da un’autrice talentuosa e innamorata della scrittura, ma anche della vita. Approfittiamo della sua presenza a Budapest per parlare con lei del suo libro, delle sue aspirazioni e, naturalmente, anche di Budapest. La incontriamo in tarda mattinata, prima del suo intervento al festival. “Emozionata?”, le chiedo dopo i saluti.  “Abbastanza, parlare in inglese davanti a molte persone mette sempre una certa ansia addosso!” In realtà può far affidamento su un’ottima pronuncia, perfezionata durante la sua esperienza di vita a Londra. Una ragazza alla mano e disponibile, che non si è fatta montare la testa dal successo ed accetta di buon grado un’intervista all’aria aperta, nel vivace prato del Millenaris. Rischiamo di prenderci una pallonata dai bambini che giocano vicino a noi, ma cominciamo con le domande.

Il tuo primo libro è stato pubblicato quando avevi appena 21 anni e premiato non solo con alcuni titoli, ma soprattutto con il successo nelle librerie. Di cosa parla “Pulce non c’è”?

Una storia vera, autobiografica, che racconta di una vicenda vissuta dalla mia famiglia. Mia sorella è autistica e nel libro si chiama Pulce. Alcuni anni fa, un giorno mia madre va a prenderla a scuola e si scontra con una brutta sorpresa. Le dicono: “Pulce non c’è”. É portata via dagli assistenti sociali, “in un posto migliore” perché si ritiene che i suoi genitori non siano più adatti a prendersi cura di lei. Una settimana dopo si scopre che la bimba, incapace di parlare, ha scritto tramite il metodo di comunicazione che usa per esprimersi (la CF, nota dell’autore) che il padre aveva abusato di lei. Nonostante sussistano le prove dell’inattendibilità di questo metodo, che mette nella bocca di chi lo usa parole non sue ed è per questo stato definito “immorale” dall’American Psycological Association, Pulce resta lontana da casa per quasi un anno. Potranno vederla solo la mamma e la sorella, che nel romanzo si chiama Giovanna ed è la narratrice, a patto che durante le visite non facciano nessun accenno a particolari che potrebbero ricordarle la sua vita precedente all’ingresso nell’istituto. Visite controllate da una “donna-soldato” responsabile di controllare, nella piccola stanza dove hanno luogo gli incontri, che non siano pronunciate parole come “papà” o “casa”. Tutto questo “per il suo bene”.

 Gaia Rayneri a Budapest (Foto Giuseppe Lian)  

La storia sembrerebbe una spremuta di dolore, ma io ho voluto prenderla dalla prospettiva della sorella, una ragazza particolare, con i suoi tic nervosi e i suoi amici immaginari, ma soprattutto con il suo modo “sbilenco” di guardare alla vita, che le consente anche di ridere, a dispetto della situazione tragica. Una scelta che autorizza l’ironia e rende il romanzo piacevole e divertente.

Al momento stai scrivendo libri per bambini. Difficile vivere solo di scrittura?

Molto, ma se facessi la cameriera di sera, tanto per usare un esempio che ho provato davvero, i miei scritti risentirebbero della mia stanchezza e avrebbero una forza minore. Mi considero una scrittrice, credo al dovere di riuscire a fare di questa una vera e propria professione.

Nel tuo libro parli di una delicata questione familiare. Come hanno reagito i tuoi alla pubblicazione?

All’inizio con grande spavento. Ho raccontato un clamoroso errore giudiziario che ha travolto la mia famiglia, per il quale non siamo mai stati risarciti. La paura era che le persone che avevano portato avanti questa ingiustizia mi denunciassero per diffamazione.

E tu, non hai avuto paura?

No, perchè sapevo di essere nel giusto e mi sembrava doveroso parlare di questa vicenda, per la mia famiglia e anche per le altre che subiscono episodi del genere. I miei genitori hanno di certo risentito di una grande stanchezza e di una certa esasperazione per l’accaduto.

Ci sono stati problemi, dopo la pubblicazione?

No, anzi il libro ha avuto un discreto successo a livello di critica e di pubblico, oltre a diversi premi e riconoscimento. Spero che questo sia stato per i miei genitori un risarcimento.

Nessun risarcimento monetario?

Per una sorta di cecità di istituzioni come i servizi sociali, il tribunale dei minori, la stessa scuola la nostra famiglia è stata incolpata, anziché difesa, nonostante le prove dell’innocenza di mio padre ci fossero fin dall’inizio. Il fatto che non abbiano mai cambiato idea non mi stupisce. Durante alcune presentazioni di “Pulce non c’è” mi sono addirittura trovata ad essere assalita dagli assistenti sociali che cercavano di attaccarmi.

Dal tuo romanzo sta per essere tratto un film. Sarà fedele al libro?

Sì, mi occupo personalmente della sceneggiatura. Ero stata contattata anche da alcuni grandi produttori, ma alla fine abbiamo scelto una produzione indipendente, che significa meno soldi ma maggior qualità e sensibilità nell’affrontare il tema. Il regista è un esperto aiuto regista al suo esordio alla regia, mentre la sceneggiatura la stiamo scrivendo con Monica Zapelli (affermata sceneggiatrice, famosa ad esempio per “I cento passi”). Trovo molto bello riscrivere quello che ho vissuto e poi già scritto, nel contesto nuovo di un gruppo di lavoro, per migliorarlo e fare arrivare ancora di più la storia allo spettatore.

Cosa si prova a dischiudere particolari anche intimi e pubblicare una storia che è quella della propria famiglia?

In realtà non ho voluto scrivere un romanzo autobiografico, se avessi voluto descrivere la mia famiglia sarei forse andata in televisione, a Striscia la Notizia o a Pomeriggio 5. Il mio desiderio era quello di comporre un’opera letteraria, per questo storia e descrizioni sono molto romanzate. Nel libro non c’è il mio dolore. Ci sono i tratti di una famiglia e un dolore possibile, verosimile, ma non i nostri. Mi sono divertita a riportare quelle piccole nevrosi e altri dettagli “sbilenchi” che esistono in tutte le famiglie. In contrapposizione alla normalità inesistente, tendente ad un’astratta perfezione, che avrebbero voluto le istituzioni.

 Volevi fare una denuncia o solo scrivere un libro?

Tutte e due. Credo che la narrazione renda più forte una denuncia. Se fossi andata in tv avremmo avuto qualche secondo di attenzione e poi tutto sarebbe svanito. Con il romanzo e grazie al punto di vista della sorella, l’errore giudiziario, raccontato da una tredicenne ho potuto urlare delle verità che un adulto non potrebbe forse raccontare, senza cadere nel patetismo.

 Da piccola sognavi di fare la scrittrice?

Sognavo di scrivere, ma non di fare la scrittrice. Ho poi sentito l’urgenza di raccontare questa storia e l’ho fatto. Era il mio primo lavoro di senso compiuto, che l’Einaudi ha letto mentre lavoravo da loro come lettrice di dattiloscritti. All’epoca il manoscritto non era finito, avevo scritto 50 pagine, ma la casa editrice mi ha stimolato a finirlo, per poi darlo alle stampe.

 

Quando hai cominciato a scriverlo?

A 19 anni. In mezzo c’è stata la vita, circa 2-3 anni in cui l’ho scritto non per la pubblicazione, ma perché mi andava di farlo. Adesso, grazie alla fiducia ottenuta, ho la consapevolezza di saper strutturare una narrazione voglia di lavorare ad altri libri.

 

Sono uscite traduzioni in altre lingue?

Ne è uscito un passaggio in un’antologia tedesca sulla letteratura giovane italiana. Ancora è presto per le versioni in lingue straniere. Gli editori aspettano che uno scrittore abbia scritto almeno due o tre libri prima di tradurne le opere e lanciarlo sul proprio mercato.

 

Cosa pensi di Budapest dopo questi primi due giorni di permanenza?

Budapest mi è sembrata una città misteriosissima e tutta da scoprire. Credo che la sua bellezza stia negli angoli nascosti, negli edifici dall’architettura sorprendente.

Come l’hai esplorata? Hai scelto itinerari particolari o seguito l’istinto?

Mi sono persa! E ho seguito il Danubio, l’acqua mi rilassa.

Claudia Leporatti

Redazione Economia.hu

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